Ripartire da Lou Sullivan contro l’abuso di potere

Tristan Guida
4 min readMay 26, 2021
Una foto in bianco e nero in cui l’attivista per i diritti delle persone transgender Lou Sullivan è rappresentato in piedi, al centro, con un paio di jeans scuri e una camicia bianca e un pappagallo sulla spalla

“Una delle mie più grandi paure”, scriveva Lou Sullivan nel 1986 dopo aver scoperto di essere sieropositivo, “è morire prima che i professionisti sanitari sappiano che qualcuno come me esiste, che io non ci sarò più per dimostrare che si sbagliano”. Lou Sullivan — i cui diari sono stati passati al setaccio, digitalizzati e pubblicati da Ellis Martin e Zach Ozma nel maggio 2020 con il titolo “We Both Laughed in Pleasure — The Selected Diaries 1961–1991” (Nightboat Books) — potrà essere finalmente riscoperto come una delle voci più luminose, orgogliose e infaticabili dell’attivismo per i diritti delle persone transgender negli Stati Uniti.

Sullivan, membro fondatore della GLBT Historical Society di San Francisco, istituita a metà degli anni ’80 come centro di raccolta e archivio di materiali relativi alla storia della comunità LGBTQ+ negli USA, nel 1986 darà vita anche al FtM International, una delle prime associazioni a livello internazionale pensate per fornire supporto psicologico, legale e sanitario specificamente a uomini trans*. Conscio dell’assenza pressoché totale di risorse disponibili nei canali di informazione mainstream sull’identità transmasculine, Sullivan cominciò a organizzare gruppi di mutuo aiuto, socializzazione e auto coscienza con altri uomini trans*, tra cui il fotografo Loren Cameron e l’attivista scrittore Jamison “James” Green, e a curare la “FtM Newsletter” — un samizdat a cadenza mensile che favoriva la circolazione di informazioni e contatti utili tra i ragazzi e gli uomini in transizione. Non di rado, allora come ora, nelle strutture specializzate in disforia di genere ci si scontrava con la violenza di un sistema culturale totalitario binario ed eteronormativo, capace di interfacciarsi con l’identità trans* esclusivamente attraverso la lente della patologizzazione. Sullivan, che otterrà il nullaosta per la mastectomia soltanto nel 1980, si era sempre rifiutato di nascondere il proprio orientamento omosessuale, facendo del suo stesso corpo uno strumento di critica e resistenza attiva all’eterosessualità non solo in quanto prerequisito di accesso ai trattamenti ormonali e chirurgici per le persone trans*, ma primariamente come norma di intelligibilità e legittimazione sociale. Susan Stryker — donna trans*, teorica e studiosa nell’ambito dei gender e queer studies, autrice di “Transgender History” (Seal Press, 2008) pietra miliare della saggistica transgenere negli Stati Uniti, mai reso disponibile in traduzione italiana (editori, anyone?) — apre la prefazione a “We Both Laughed in Pleasure” riportando un breve passaggio dei diari del Sullivan adolescente in cui troviamo sintetizzata la descrizione più semplice, puntuale ed emozionante dell’identità trans*: “Voglio apparire per la persona che sono, ma non ho idea di che faccia abbia una persona come me. Quando le persone mi guardano, voglio che pensino: questa è una di quelle persone che ha un pensiero critico, è un filosofo, ha la sua personale interpretazione di felicità. Questo è quello che sono”.

Perché scrivo di Lou Sullivan oggi? Perché è stato soltanto grazie all’advocacy e all’attivismo di transacestors come lui che nelle sedute con il mio terapeuta non sono stato obbligato a mentire: non mi sono dovuto inventare che da piccolo i videogiochi di guerra mi mandavano in sollucchero, che provo un’attrazione romantica e sessuale esclusiva per le donne, che non vedo l’ora di bruciare tutti i vestiti a fiori e trascorrere il resto della vita ingessato nel nodo di una cravatta. Ma io ho avuto il privilegio di scegliere un professionista che si pone a di fuori del sistema di relazione cis-etero-normato e normalizzante, che crede nella necessità di dare voce, visibilità e riconoscimento anche alle soggettività non binarie, che non ha mai messo in discussione il vissuto percepito da me condiviso in terapia. Un professionista a cui ho potuto comunicare con serenità che, pur essendo ormai molto solido nel mio desiderio e bisogno di avviare un percorso medicalizzato di affermazione di genere, non rinnego e non voglio affatto liberarmi della mia esperienza di socializzazione “al femminile”: essere stato socializzato come bambina, ragazza e infine donna mi ha consentito — anche se a causa del mio dissidio identitario l’ho compreso solo di recente — di costruirmi attraverso lo strumento della relazione anziché della competizione, di vedere nella vulnerabilità un’opportunità di riflessione e non un segno di fallimento, di concepirmi come parte di una comunità di cura prima che come soggettività isolata ed ego-riferita. Quest’eredità ha un valore inestimabile e non ho alcuna intenzione di cancellarla da quel progetto di incorporazione della maschilità queer in cui si riflette e attraverso cui si manifesta la mia “personale interpretazione di felicità”.

Eppure — nonostante gli antenati della nostra comune storia transgenere ci abbiano spianato la strada attraverso teorie e pratiche di resistenza allo stigma e alla marginalizzazione — nelle prossime settimane quel terapeuta mi dovrà rilasciare una certificazione attestante una condizione di incongruenza di genere che nel nostro ecosistema socio-culturale non solo resta il pre-requisito giuridico per accedere a trattamenti spesse volte salvavita, ma si conferma come la sola prova attendibile che quello che affermo di essere “corrisponde a verità”. Vedete, così come ogni forma di violenza sessuale non ha niente a che fare col desiderio, ogni tentativo di screditamento dell’identità di genere attraverso la “manicomializzazione” del complesso burocratico sanitario e legale non ha a cuore il benessere psico-fisico della persona: in entrambi i casi il motore propulsore è l’abuso di potere. In giorni come questi, in cui l’approvazione di una legge di civiltà viene messa a rischio non solo a causa dell’opposizione delle frange più conservatrici del panorama politico italiano, ma anche della riluttanza partiticamente ben più trasversale a riconoscere lo status di essere umano, o ancor prima di essere vivente, a determinate soggettività capaci di intendere, volere e operare sui propri corpi, è urgente rimettere in circolo storie come quella di Lou Sullivan. Che la grazia delle sue parole, la sovversività delle sue pratiche e il suo impegno irriducibile per il bene comune ci mantengano sempre liberә di scoprire, coltivare e condividere il nostro senso più intimo e autentico di noi.

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Tristan Guida

Non binary (he/him they/them). Radical left-wing. International politics addict. Writing on body image, eating disorders and gender identity. IG @giu_stap_punto