La malattia non è l’eccezione che conferma la regola: contro il binarismo sano/malato

Tristan Guida
6 min readFeb 13, 2021

Per Internazionale Online Claudio Rossi Marcelli ha realizzato un approfondimento sulla miniserie britannica “It’s a Sin”, diretta da Russell T. Davis per Channel 4 e ambientata nella Londra degli anni ’80 durante l’epidemia di AIDS. Marcelli passa in rassegna una carrellata di alcuni tra i più noti prodotti dell’industria audiovisiva europea e statunitense che, a partire da “Philadelphia” nel 1993 fino ad arrivare a “Looking” nel 2014, hanno contribuito a fare dell’AIZ un tema di giustizia sociale, a politicizzare il corpo dei malati come strumento di rivendicazione di diritti spesso negletti, a decostruire il carico di stigma e isolamento sociale associati alla sieropositività a danno di comunità già marginalizzate da molteplici variabili di oppressione sistemica. “L’AIDS” — titola Marcelli — “uccideva solo quelli che dovevano morire”, che erano designati all’assenza di tutele per volontà politica, del tutto esclusi dalle reti istituzionali del sistema sanitario, delle politiche attive per l’impiego e degli interventi di supporto abitativo, in primo luogo la comunità LGBT+, i sex worker e i tossicodipendenti. D’altronde, non è un caso se lo spregiudicatissimo avvocato maccartista Roy Cohn, che troviamo redivivo nella NY visionaria e apocalittica di “Angels in America” (Mike Nichols, 2003) con la faccia di Al Pacino, non solo terrà nascosta la propria diagnosi per timore che la sua omosessualità venga resa pubblica dalla stampa, ma sarà tra i pochi privilegiati ad avere accesso a studi clinici sperimentali sull’AZT. L’AIZ è una storia di diseguaglianze sociali, di squilibri di potere, di lotta di classe: per questo anche ora che la sieropositività è percepita come una condizione “socialmente accettabile” (ci torniamo tra poco), le categorie più colpite (spesso tuttora a maggior rischio di infezione per mancato accesso ai protocolli di prevenzione e trattamento) devono poter esercitare il ruolo di soggetti della propria narrazione, riscrivere da una prospettiva interna il loro trauma e il sistema di oppressioni che ne è all’origine, e amplificare la voce di tutte le soggettività coinvolte, ciascuna secondo le specificità del proprio vissuto.

A questo proposito, una brevissima osservazione a margine. Premesso che non ho le competenze necessarie per scrivere una critica ragionata della serie e che il pezzo di Marcelli mi ha solo dato il la per riflettere sul binarismo sano/malato come base teorica del processo di alterizzazione della malattia, trovo tuttavia che la mancata diversificazione del punto di vista, trasversale alla maggior parte degli audiovisivi sul tema, non sia una criticità di poco conto. Sarò sempre in debito con Russell T. Davis: il suo “Queer as Folk” (che aveva deliberatamente escluso la trattazione dell’AIZ dalla sceneggiatura per depatologizzare la rappresentazione dell’amore e del sesso tra uomini dopo un decennio di lutto transgenerazionale) è stato un portale per cominciare a esplorare la mia identità di genere non binaria trans-masculine, quando ancora non avevo le parole per definirmi, ma lo schermo mi rimandava un’assonanza dirompente rispetto al mio corpo percepito, al mio desiderio sessuale e al mio immaginario affettivo-romantico. In “It’s a Sin”, al contrario, Davis decide di mettere la malattia in primo piano, ma così come in “Queer as Folk” il punto di osservazione privilegiato appartiene ancora una volta a un gruppo di uomini gay cisgender, scelta che decentra dalla narrazione altre soggettività della comunità LGBTQA+, in primo luogo le donne trans, che nella mediatizzazione dell’AIZ sono state sistematicamente invisibilizzate (con l’eccezione di “Pose”), ma che al pari della categoria MSM (maschi che fanno sesso con maschi) rientrano tra le categorie più esposte al rischio di contrarre l’infezione da HIV. Di progressi, a ogni modo, sul piano della rappresentazione ne sono stati fatti — scrive Claudio Rossi Marcelli — prendendo a esempio il Michael di “Tales of the City” (l’adattamento Netflix del 2019 de “I racconti di San Francisco” di Armistead Maupin), “un uomo gay sieropositivo di mezza età che che vive una vita normale grazie ai nuovi trattamenti per l’HIV”. Ma cos’è una vita normale? Quali sono le caratteristiche che rendono un corpo, e l’identità sociale della persona che lo abita, normale? Dove si esaurisce il corpo normale e inizia il corpo normato?

A una prima analisi, la formulazione scelta da Marcelli “una vita normale” è semplice da decifrare: si assume una pillola al giorno anziché diciotto, se si è in trattamento antiretrovirale con carica virale negativa non si è contagiosi (U=U: Undetectable=Untransmittable), le aspettative di vita di un soggetto sieropositivo sono sostanzialmente uguali a quelle di uno sieronegativo. Ma a un livello di lettura più profondo quest’espressione contiene una serie di implicazioni socio-culturali molto problematiche. La sieropositività, scrivevamo poco sopra, viene ormai percepita come una condizione “socialmente accettabile”. Posto che nutro delle grosse riserve sull’effettività del processo di “normalizzazione” dell’HIV e dell’AIDS nel discorso pubblico, mi domando: la sieropositività ci risulta ora socialmente integrabile perché è trattabile? Perché non è manifesta? Perché i protocolli terapeutici permettono non solo di contenere la diffusione dell’infezione e migliorare il benessere psico-fisico delle persone HIV+, ma soprattutto di non farle apparire “malate”? Quando diciamo di aver “normalizzato” l’HIV, siamo sicuri di aver smantellato a livello collettivo lo stigma che si porta appresso? Di riconoscere alle persone sieropositive la validità che è loro propria, anche qualora sviluppassero i sintomi dell’AIDS conclamato? Continuerebbero a essere legittimate come parti del corpo sociale o ne verrebbero espulse in quanto malate, e pertanto altre, non normali, non normalizzabili?

La malattia come simbolo dell’alterità è un costrutto culturale ancora molto radicato e pervasivo. “Appena nasciamo abbiamo una doppia cittadinanza, nel regno dei sani e nel regno dei malati” — rifletteva Sontag in “Malattia come Metafora” (ripubblicato nella traduzione di Paolo Dilonardo da Nottempo lo scorso novembre) — “sebbene tutti preferiremmo usare sempre il passaporto buono, presto o tardi saremo obbligati, anche se per breve tempo, a identificarci come cittadini di quell’altro posto”. Il binarismo sano/malato si fonda sull’assunto che la malattia — e la morte che in alcuni casi ne consegue — arrivi, con la rarità di un’eclissi antartica, a disintegrare il corpo sano come sistema in equilibrio, causandone un progressivo processo di alterizzazione: un corpo che visibilmente non è più in grado di conformarsi a determinati indicatori dello stato di salute cessa di essere umano, ricade nella categoria del mostro contro cui l’esercito dei sani si polarizza e al quale riserva — innegabile il parallelismo rispetto al corpo transgenere — reazioni di pietismo, indignazione o repulsione. Il corpo malato smette di essere soggetto per trasformarsi in oggetto di indagine clinica. La malattia continua incredibilmente a essere percepita come un accadimento esterno al regolare corso della vita, quando irrompe ne determina una sospensione: fintanto che si è malati, non si è più vivi, si sosta in un limbo in attesa che le caratteristiche prescrittive del corpo sano normativizzato siano ripristinate. Se alla malattia si sopravvive, ma se ne esce “danneggiati”, il danno manifesto non solo diventa il principale descrittore identitario di quel corpo, ma si traduce anche in un criterio di valutazione, gerarchizzazione ed esclusione della persona che lo abita (perché il corpo, checché se ne dica, non è mai neutrale). Il malato perde per sempre il diritto di cittadinanza nel regno dei sani, ma questa dicotomia non esiste in natura, la distinzione tra il mondo dei sani e quello dei malati è culturalmente costruita su un sistema di oppressione di matrice abilista che ha fatto dell’alterizzazione del corpo malato uno strumento di controllo, discriminazione e abuso. A dispetto dei progressi nella rappresentazione, l’AIZ continua a raccontarci a distanza di 30 anni la stessa storia di stigmatizzazione perché siamo ancora ben lontani, come collettività, dall’aver decostruito l’equazione malattia=anormalità. Più che impegnarci a “normalizzare” la malattia, dobbiamo reimparare che il corpo sano non è per davvero la norma, che il concetto di “normalità” non deve essere esteso a quante più soggettività possibili, ma del tutto smantellato. Solo in questo modo nessuno sarà lasciato indietro.

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Tristan Guida

Non binary (he/him they/them). Radical left-wing. International politics addict. Writing on body image, eating disorders and gender identity. IG @giu_stap_punto