Deadname/emptyname: tra il vuoto e la leggerezza c’è di mezzo un nome

Tristan Guida
4 min readApr 12, 2021

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Il dizionario di lingua inglese Merriam-Webster — che nel 2019 aveva scelto come parola dell’anno il pronome they/them, facendo riferimento al suo utilizzo al singolare per indicare una persona di genere non binario — alla voce deadname (letteralmente “nome morto”) riporta:
«Il nome assegnato alla nascita a una persona transgender e successivamente dismesso con l’avvio del processo di transizione di genere».

Un nome proprio non è soltanto una sequenza arbitraria di lettere, racchiude e riflette l’identità della persona che lo abita, assieme al corpo ne è la prima interfaccia con il mondo.
Quando il genitore o qualsiasi altra figura di cura attribuisce il nome a un nuovə natə, sancisce il primo atto del suo processo di costruzione identitaria, necessario a definire cos’è “io”, a descriverne il perimetro, tracciandone il punto di inizio e di fine, e a riposizionarlo di volta in volta nello spazio rispetto agli altri “io” con cui si trova a interagire: io sono innanzitutto il mio nome, il resto è altro e fuori da me.

Nominare è un atto di affettuosa coercizione: alla nascita nessunə si trova nella condizione di dover sceglier il proprio nome, ci viene affibbiato e ci si cresce dentro più o meno comodamente, finendo per sviluppare un buffo senso di appartenenza che quasi sconfina nella gelosia — vi ricordate lo stupore misto al disappunto quando da bambinə avete scoperto che non eravate glə unicə Marta e Marco nel mondo?
Che quella stringa di lettere gridata da un’altalena all’altra in un parco giochi poteva indicare qualcun altrə a parte voi?

Quando una persona trans* (e con trans* qui indichiamo tutte quelle soggettività la cui identità di genere differisce da quella assegnata alla nascita, che si riconoscano o meno all’interno del sistema binario maschile/femminile) intraprende un percorso di transizione sociale e/o medicalizzata, può sperimentare un senso di progressiva dis-identificazione rispetto al nome anagrafico.

In una lingua come quella italiana, dove la genderizzazione (ovvero la caratterizzazione di diverse parti del discorso, come gli aggettivi o i participi passati dei verbi, finalizzata a esplicitare il genere di appartenenza di qualcunə o qualcosa) complica l’adozione di un linguaggio il più possibile inclusivo in termini di genere, anche la maggior parte dei nomi propri non sono gender-neutral perché identificano in maniera per lo più esclusiva persone assegnate o maschi o femmine alla nascita in base all’osservazione dell’anatomia genitale.

Presentarsi nel mondo con un nome che per convenzione sociale viene associato a un’identità di genere non coincidente con la propria può esasperare un vissuto di incongruenza, soprattutto se non si può o si decide di non intraprendere una transizione medicalizzata che permette un graduale allineamento del corpo visibile con il corpo percepito.

Per questo una pratica comune nei percorsi di affermazione di genere è la scelta di un nome diverso da quello anagrafico, che viene per l’appunto archiviato come deadname.

L’auto-nominazione per una persona in transizione è un atto dal profondo valore simbolico perché sottende alla rivendicazione di una nuova identità sociale oltre che individuale: continuare a rifersirsi a una persona trans* con il nome anagrafico (deadnaming) e i pronomi relativi al genere assegnato alla nascita (misgendering), nonostante l’esplicita richiesta di fare diversamente, può causare delle severe ripercussioni sul benessere psico-fisico di chi subisce queste pratiche.

Se il nome è il nostro “io”, il misgendering e il deadnaming — soprattutto quando non sono frutto di distrazione, ma nascono da una volontà manifesta di discriminazione — negano alla persona trans* la legittimità di abitare lo spazio sociale per come si auto-percepisce e, di conseguenza, per come è.
Le negano il diritto di esistere.

Quando lo psicoterapeuta mi ha chiesto di osservare le sensazioni che mi suscitava essere chiamato con il nome anagrafico, ho concluso che per me “Giulia” non è tanto un nome morto, verso cui provo fastidio, ostilità o paura, quanto piuttosto un nome vuoto, un empty name.
Man mano che la mia identità di genere non binaria trans-masculine (al di fuori del sistema binario di genere maschile/femminile, ma con una crescente tendenza verso il polo maschile, almeno rispetto al mio corpo percepito) va delineandosi, “Giulia” si sta progressivamente svuotando della rete di significati che hanno concorso a scriverne la storia.
Mi rappresenta ogni giorno sempre un po’ meno.

Il mio nome d’elezione invece, che per ora ho deciso di utilizzare soltanto in terapia e con il mio gruppo di affetti più cari, è uno spazio bianco ancora tutto da significare, eppure ha già un suo peso specifico. Ascoltarlo o leggerlo nel corso di una conversazione, anche se non ci ho ancora fatto l’abitudine e alle volte mi macchio di esilaranti crimini di auto-deadnaming, mi restituisce un centro, un senso di pienezza, uno stato di solidità.
E sopra ogni cosa leggerezza che, come scriveva Daniil Charms, non va mai confusa con il vuoto.
Tra la leggerezza e il vuoto c’è di mezzo un nome e quel nome adesso sono io.

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Tristan Guida

Non binary (he/him they/them). Radical left-wing. International politics addict. Writing on body image, eating disorders and gender identity. IG @giu_stap_punto