Corpi di confine: come ripensare il trattamento dei DCA attraverso la fat liberation

Tristan Guida
7 min readFeb 23, 2021

[TW: Disturbi del comportamento alimentare, grassofobia, violenza medica, autolesionismo]

Quest’anno dal 22 al 28 febbraio ricorrerà la Eating Disorders Awareness Week, la settimana dedicata a promuovere a livello globale iniziative di sensibilizzazione verso i disturbi del comportamento alimentare (DCA). Da quando ho iniziato il mio gender journey, un viaggio d’esplorazione fuori dai binari del sistema bipolare maschile e femminile, la lotta contro il corpo che mi accompagna a più riprese dalla pubertà si è caricata di altri significati, fino ad allora imbrigliati nel tessuto non verbale in cui ogni corpo è immerso e che di ogni corpo rappresenta il nucleo ontologico, l’asse portante che ne permette l’articolazione nello spazio, l’interazione con ciò che abita “fuori”, ma che entra ed esce continuamente dal suo perimetro, ne frastaglia i confini, ne affila gli angoli, ne saggia le resistenze. Il corpo trans*, a causa dello stato di dis-identità tra il piano del visibile e quello del percepito, alle volte fa fatica a individuare quel centro e a fissare un senso di sé. Se il mio corpo non riflette pienamente la mia identità, cosa intendo quando dico “io”? Posso esistere a prescindere da e nonostante il mio corpo? Il corpo potrà mai essermi veramente neutrale?

L’esperienza di incongruenza di genere non è quasi mai oggetto d’indagine nei centri per il trattamento dei DCA, almeno in Italia, dove tuttora il numero di studi clinici volti a valutare una correlazione tra la manifestazione di identità di genere non conformi e lo sviluppo di DCA è irrisorio. Secondo un sondaggio online sull’insicurezza e i disordini alimentari , realizzato nel 2020 su un campione di popolazione LGBT+ tra i 18 e i 35 anni da Andrea Y. Arikay e al.(trovate una sintesi dei risultati sulla pagina IG di @thirdwheelED, nata proprio per raccontare i DCA attraverso una lente queer), il 54, 4% dei partecipanti dichiara di soffrire di disturbi del comportamento alimentare, con un picco del 64,8% tra gli uomini trans*; sintomi depressivi sono stati riportati dal 68,2% degli uomini, l’89,8% delle donne, il 91, 4% degli uomini trans* e il 95,5% delle persone gender non-conforming; il disturbo riferito in percentuali maggiori dai partecipanti è il binge eating (c.detto disturbo da alimentazione incontrollata). L’incongruenza di genere viene spesso letta come una manifestazione di dismorfismo corporeo, soprattutto qualora non si presentino nel paziente dei pattern psicoattitudinali inequivocabilmente riconducibili al “genere opposto” a quello assegnato alla nascita (dato che abitiamo ancora in un sistema-mondo per cui i generi sono soltanto due e tutto quello che si colloca nel mezzo o al di fuori non ha nome e non esiste). L’ignoranza del personale sanitario in materia porta spesso all’adozione di standard terapeutici che non tengono conto di eventuali fattori concorrenti nell’emersione di comportamenti anoressico/ortoressico/bulimici , la cui analisi sarebbe invece indispensabile per elaborare percorsi di recupero ad hoc sulla base del vissuto percepito del singolo paziente. Ma le soggettività trans* e non binary non sono le uniche a finire invisibilizzate negli iter diagnostici e nell’accesso ai trattamenti per DCA: la categoria sistematicamente più stigmatizzata è quella delle persone grasse.

Spesso si approda a una diagnosi di anoressia soltanto quando l’indice di massa corporea (BMI = Body Mass Index), l’indicatore biometrico ideato da Adolphe Quelet per calcolare “il peso teorico o ideale” in rapporto all’altezza (su questo vi rimando al blog di Your Fat Friend, “The Bizzarre and Racist History of the BMI”, 15 ottobre 2019), scende al di sotto di 15/16, ossia il valore minimo della prima delle cinque classi di peso che Quelet ha ritenuto esaustive per descrivere l’irripetibile pluralità di forme corporee della popolazione mondiale. Se il peso di partenza è considerato eccessivo rispetto a quello “desiderabile”, la probabilità statistica che la manifestazione di DCA passi inosservata è pericolosamente alta. Sulla rete si sprecano le testimonianze di violenza medica su persone grasse che lamentano di non aver ricevuto una diagnosi di DCA in tempi utili e, conseguentemente, di essersi viste ritardare o addirittura negare l’accesso ai protocolli di terapia nelle strutture sanitarie preposte. Le persone grasse non possono essere altro che grasse, il grasso è il primo e unico fattore scatenante dei loro disturbi fisici, tanto da interpretare una vertiginosa perdita di peso come un fenomeno positivo, che non solo non merita di essere indagato, ma che va anzi incentivato. Lo stigma contro il grasso che — come scriveva Goffman in “Stigma. Note sulla gestione dell’identità degradata” (Ombre Corte, Verona, 2018, trad. Marco Bontempi)— è sia uno stigma fisico che caratteriale, con l’inizio del XX secolo e l’avvento della rivoluzione industriale diventa “ un marcatore significativo di inferiorità”— aggiunge Farrell in “Fat Shame” (Tlon Ed., Roma, 2020, trad. Dorotea Theodoli), atto a denotare la non conformità rispetto a uno standard di valore, al pari della nerezza o della povertà. Non è un caso, precisa Farrell che “l’odio culturale per il grasso emerse contemporaneamente alla costruzione di gerarchia di etnia, sessualità, genere e classe. La denigrazione dei grassi era collegata ai processi generali di mappatura di quelle gerarchie politiche e sociali: si creò una gerarchia dei corpi superiori e inferiori”.

Io mi definisco un soggetto DCA in terapia permanente. Sebbene il mio peso attuale, stando alle griglie del signor Quelet, si collochi in un range adeguato in rapporto all’altezza, sono ben consapevole che la mia relazione con il cibo è spesso governata da meccanismi di compensazione derivanti da un’associazione automatica tra il nutrimento e il senso di colpa. Mangiare da tempo non è un atto intuitivo: mangio nella privazione, nell’esagerazione, nell’(auto)imposizione. Mangio tanto quando non mi va affatto, mangio poco quando sto morendo di fame. La lente della scarsità, dell’esistere per “sottrazione” attraverso una graduale scomparsa del sé, si attiva di tanto in tanto, meno di prima, ma ancora capita. Capita quando mi guardo allo specchio e vedo una forma che non coincide con il mio corpo percepito, quando vedo un seno laddove ci dovrebbe essere un petto; dove osservo dei fianchi che non hanno niente che non vada, se non che sono i fianchi di una donna, o almeno quelli che nell’immaginario collettivo convenzionalmente descriviamo come fianchi femminili; dove vedo delle guance completamente glabre e mi piacerebbe scoprire della barba. Non so se questo viaggio attraverso il genere mi porterà a iniziare un percorso di transizione medicalizzata: è un orizzonte che mi spaventa, soprattutto a fronte di una storia clinica così arzigogolata e malmostosa, ma non è un’opzione che escludo, dipenderà da come e se imparerò ad abitare quest’identità fuori dai binari nel corpo che dal 1989 mi fa da interfaccia con il mondo. Quello di cui sono certo è che se la correlazione tra l’identità di genere e i DCA fosse stata interrogata, se non fossi stato trattato come una malattia prima che come una persona, forse il mio percorso di recupero avrebbe richiesto uno sforzo di auto-coscienza meno doloroso, scostante e solitario. Soprattutto avrebbe dato dei risultati molto più solidi sul lungo termine.

Perché, vedete, il principale motivo per cui un’altissima percentuale dei percorsi di recupero da DCA si concludono con esiti fallimentari è che non sono finalizzati a trasmettere l’idea che tutti i corpi sono validi, ma che solo specifici range di corpi siano conformi e quella conformità è il proposito a cui tendere, che si tratti di prendere o perdere peso. Nei centri specializzati che ho frequentato negli scorsi anni la dieta del paziente viene costruita attraverso un’accuratissima conta calorica. Sono numeri, solo numeri. Non c’è spazio per il desiderio del paziente, né per la sua paura, né per il suo dolore. Soltanto sua è la responsabilità della ripresa, sua la volontà di raggiungere un obiettivo che è stato fissato come standard, ma che spesse volte non l* rappresenta. L’equazione cibo = colpa non viene mai messa radicalmente in discussione, se non nell’ambito degli approcci nutrizionali e psicoterapici HAES (Health at Every Size) e Intuitive Eating che, grazie al preziosissimo lavoro dell’attivismo fat acceptance dagli anni ’60 in avanti, si sta impegnando nello smantellamento della cultura della dieta, nel rifiuto del BMI come valore biometrico di riferimento del “peso fisiologico desiderabile” e nella decostruzione dei modelli creati ad arte dal complesso della beauty industry.

Quando Judith Butler immaginava un’alleanza dei corpi come “pratica utopica, tensione costante e continuativa al miglioramento delle condizioni date” (recuperate Federico Zappino per Quindi Che fare, “Il tempo ‘irrimediabilmente compromesso’ dei corpi di Judith Butler”, 24 maggio 2017), poneva come conditio sine qua non la costruzione di una connessione materiale, emotiva, relazionale e spirituale contro l’imperativo della conformità come unica condizione possibile dell’essere al mondo: l’alleanza dei corpi è un atto politico di cura collettiva necessario per mettere ognun* di noi nelle condizioni migliori a dare un nome e una voce a quel nucleo ontologico che è “io” e che si afferma sempre in connessione all’altr*. Per questo non di rado mi trovo a ragionare sulla necessità di coltivare una rete di supporto tra i corpi trans*, grassi, disabili, anziani e tutte quelle soggettività che si configurano come anomalie di sistema, distorsioni sonore, interferenze visive: solo coltivando la solidarietà nella dimensione dell’ “anormale” si potrà non tanto normalizzare la non conformità, ma distruggere l’idea stessa che una e una sola norma esista.

In conclusione, una strategia di trattamento efficace dei DCA non può fare a meno della fat liberation. Spero che sempre più professionist* della salute mentale e della nutrizione ne accolgano i principi e si impegnino in un percorso di autentica liberazione per i loro pazienti, che li aiuti a riconfigurare il nutrimento in un’ottica di piacere, al riparo dalla vergogna e dallo stigma.

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Tristan Guida

Non binary (he/him they/them). Radical left-wing. International politics addict. Writing on body image, eating disorders and gender identity. IG @giu_stap_punto