Queering Up Masculinity

Tristan Guida
6 min readMar 25, 2021

Nell’ultimo episodio del podcast “Gender Reveal” Tuck Woodstock — persona non binaria, giornalista, audio producer, formatorә nell’ambito della workplace diversity e gender equity — intervista Francisco J. Galarte, Assistant Professor presso il dipartimento di Women, Gender and Sexuality Studies presso la University of New Mexico e autore del saggio “Brown Trans Figurations: Rethinking Race, Gender and Sexuality in Chicanx/Latinx Studies”, nato come progetto di ricerca sulle intersezioni tra genere, razza e classe nelle comunità latine e chicane negli Stati Uniti. Galarte ha scelto di autodeterminarsi attraverso l’etichetta transfonterizo, considerando l’attraversamento della frontiera sia in termini di genere che di geografia, o ancor meglio di geopolitica, come l’esperienza seminale nel suo percorso di decostruzione e ricostruzione identitaria. In quanto uomo transgender, che per tutta l’adolescenza e la prima adultità si è identificato come donna lesbica butch, dopo aver intrapreso il processo di transizione sociale e medicalizzata, Galarte ha deciso di studiare ed espandere l’eredità della teoria queer elaborata da pensatorә come Jack Halberstam, Leslie Feinberg e Eve Kosofsky Sedgwick per proporre nuove risposte alla domanda che Halberstam stesso si era posto nel suo “Female Masculinity” nel 1998 (Federica Frabetti ha tradotto degli scritti scelti da questo e altri testi di Halberstam, raccogliendoli nell’antologia “Maschilità senza uomini”, pubblicata da ETS Editore nel 2010): cosa succede quando la maschilità abbandona il corpo degli uomini? Se le definizioni di maschile e femminile possono essere sganciate dall’essenzialismo biologico, come si configura la maschilità quando viene inscritta in ed espressa da corpi non AMAB (assigned male at birth = assegnati maschi alla nascita?) Quando può essere letta e legittimata dallo sguardo esterno in quanto tale? Che ruolo agisce e come si posiziona nelle gerarchie di potere della società patriarcale? Di quale potenziale trasformativo è depositaria? A questo proposito Galarte osserva: “Penso che non abbiamo ancora riflettuto collettivamente su come la maschilità si configuri in soggettività altre, specialmente in uomini trans* razializzati, donne lesbiche butch e in certa misura anche in persone non binarie trans-masculine: partiamo dall’assunto che la maschilità sia una risorsa limitata, ma io credo che in queste identità la maschilità stia interrogando e disaggregando le parti più insidiose di sé stessa”. Parti che non sono biologicamente determinate, ma culturalmente costruite, replicate e rafforzate attraverso gli schemi dell’eterosessualità e allosessualità obbligatorie, del cisgenderismo normativo, della amato-mononormatività come unico format relazionale e famigliare abitabile su cui e per cui gli stessi tessuti urbani sono modellati e progettati, della proprietà privata come principale se non esclusiva categoria interpretativa della genitorialità. In un sistema di sorveglianza biopolitica fondato sulla prescrittività, l’omologazione e l’alterizzazione della non conformità, dunque, cosa significa scoprirsi maschi, quando si è stati educati secondo altri schemi di socializzazione? In che modo queste esperienze possono confluire nell’incorporazione di nuove forme di maschilità? E soprattutto dove si inserisce la trans-maschilità nelle pratiche di liberazione femminista?

Durante una delle prime sedute del mio percorso di affermazione di genere mi sono sorpreso a condividere con il terapeuta queste parole: io sento di essere un maschio, ma non so come esserlo. Non so come esprimere la mia maschilità quando la maschilità che vedo sistematicamente agita intorno a me mi restituisce canoni estetici, comportamentali e relazionali in cui io non solo non mi identifico, ma che ritengo distruttivi sia a livello individuale che collettivo. Posso percepirmi ed essere percepito come maschio, anche se non mi conformo a questi standard? Se sono tenuto a riformulare la mia identità secondo i dogmi della performatività, del culto del successo, del binarismo, del militarismo, della repressione emotiva, del disprezzo della cura e dell’esercizio della forza come unica modalità comunicativa, se essere maschi richiede piegarsi a tutto questo, allora no. Non posso e non voglio. Ho pensato il mio percorso, indipendentemente da se e quando implicherà una transizione medicalizzata, come una pratica di liberazione e riallineamento al mio vissuto percepito, per rendere il mio corpo uno spazio sicuro, centrato e confortevole con cui muovermi nel mondo. Non accetto di trasformarlo in un corpo estraneo e dannoso per me e per glә altrә. Di fronte alla mia iniziale reazione di rigetto il terapeuta mi ha posto una domanda, che non solo ho accolto come oggetto di ricerca teorica, ma che sto giorno per giorno incorporando come parte strutturale nel mio progetto di maschilità: “Quanti modi ci sono di essere maschi, quanti percorsi per diventare uomini?”

Ho sempre avuto un rapporto complicato con il femminile. E non mi riferisco soltanto al sentimento di incongruenza rispetto ai caratteri sessuali secondari del genere che mi è stato assegnato alla nascita — la disforia va e viene e non sempre è presente con la medesima intensità — ma intendo piuttosto la percezione di radicale e persistente inconsistenza, inadeguatezza e impostura esperite nel relazionarmi aglә altrә in quanto ragazza e donna. Il mio percorso di auto-formazione letteraria, musicale e artistica fino all’età adulta ha incluso prevalentemente voci maschili, non solo perché le donne sono sproporzionatamente sottorappresentate nell’industria culturale, ma perché a un livello inconscio l’incontro con il loro portato, per quanto diversificato in base alle specificità di classe, razza, orientamento, credo religioso, pensiero politico, mi metteva nella posizione scomoda di interrogare questo stato di alienazione rispetto al mio genere. E nonostante gli input ricevuti dal corpo, che periodicamente tornano ad attivarsi nella mia memoria sensoriale, a dodici o tredici anni non disponevo ancora della maturità emotiva e della capacità di auto-ascolto necessarie a lanciarmi in quest’esplorazione senza uscirne in mille pezzi. Per quasi trent’anni mi sono limitato a giudicarmi incapace di soddisfare gli standard di femminilità che, al pari della maschilità, veniamo educati a concepire come una risorsa limitata, costretta a incarnarsi in un range predeterminato di forme corporee e pattern comportamentali per poter essere individualmente reclamata e socialmente riconosciuta. Io dove mi situavo tra questi due poli, se da una parte fallivo i criteri di accesso della femminilità e dall’altra il corpo riflesso nello specchio mi ricordava che la maschilità non poteva, nell’ottica determinista in cui il sesso (o meglio l’anatomia genitale) coincide con il genere, essere sfera di mia competenza? In un’epoca in cui il non binarismo era una categoria culturale sconosciuta ai canali di informazione mainstream, ancor più nel contesto della provincia, quale posizionamento potevo rivendicare? Perché vivevo l’essere donna come una forma di appropriazione indebita? Come se mi stessi impossessando, in assenza di alternative a me funzionali, dell’esperienza di qualcun altro? Per poter dire “io” e attribuirgli un contenuto?

Aver intrapreso questo viaggio intorno e dentro al genere come persona non binaria trans-masculine mi ha finalmente permesso di abbracciare la mia femminilità senza opporre resistenza, soprattutto senza screditare quella rete di conoscenze, competenze e modalità di interazione acquisita grazie al mio passato di socializzazione. Potrebbe suonare paradossale, ma è un’esperienza che ritorna spesso nei racconti di coming out degli uomini trans*. Era il femminile in quanto identità obbligatoria a originare il mio vissuto di disappartenenza, a impedirmi di immaginare un posto in cui essere pienamente me. Per questo l’utilizzo dei pronomi corretti e del nome d’elezione per una persona trans* non è velleitario: la lingua detiene un potere performativo sulla realtà, ne cambia i connotati e la modella sulla base delle istanze della comunità dei suoi parlanti. Utilizzo i pronomi maschili e neutri perché mi permettono di comunicare senza dovermi dissociare dal mio inner sense of self, il senso più intimo, profondo e autentico di me. Soltanto adesso, da questa prospettiva, ho cominciato veramente a leggere e ascoltare le donne, a condividerne gli spazi senza che la mia diversità si traduca in una frattura, a intavolare dei confronti costruttivi sulle teorie e le pratiche femministe con la consapevolezza che la sovversione dello status quo richiede un lavoro primario di messa in discussione dei propri pregiudizi e privilegi. Ora che mi chiamano amico, ora che mi permetto di chiamarmi “compagno”, so che il mio progetto di maschilità queer, omosessuale, fuori dai ranghi della mononormatività potrebbe accogliere quel patrimonio scritto nel corpo e farne allo stesso tempo uno strumento di cura e di lotta.

Nella mia ipotesi presente e futura di maschilità il cameratismo cede il passo alla fraternità, l’auto-censura emozionale si disintegra di fronte al desiderio di condivisione, la cultura del consenso soppianta l’abuso di potere come mezzo di affermazione identitaria. Il mio viaggio è soltanto all’inizio, ma vorrei che questa testimonianza potesse essere uno spunto per altri uomini trans* e persone non binarie trans-masculine per riflettere sul ruolo della propria trans-maschilità nella pratica femminista, perché definire il proprio posizionamento — come ci ricorda Rachele Borghi in “Decolonialità e Privilegio” — capire da dove, come e perché si scrive è il primo passo per assumersi la propria responsabilità di genere e per proporre risposte sempre nuove e sovversive a quella domanda: “Quanti modi ci sono di essere maschi, quanti percorsi per diventare uomini?”

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Tristan Guida

Non binary (he/him they/them). Radical left-wing. International politics addict. Writing on body image, eating disorders and gender identity. IG @giu_stap_punto